Perché cerco di praticare la pittura, 1991


Monteveglio, 1991

"Perchè dipingo?
A un certo momento ho cominciato a fiutare qua e là come fa un cane quando cerca la pista: cercavo il sentiero per arrivare a comprendere il senso della mia vita.
Osservavo, leggevo, guardavo, frequentavo ambienti diversi, desideravo conoscere fino in fondo tutto quanto sentivo animato da una presenza che oscuramente era in consonanza con quanto mi inquietava. È necessario sottolineare che questo girovagare era praticato in una condizione di penuria economica; la condizione economica assume un grande rilievo nell’ambito di esperienze realmente conoscitive.
Due ordini di necessità animavano la mia ricerca: riuscire a percepire con immediatezza l’oscuro oggetto delle mie inquietudini, trovare i mezzi per rendere queste transitive, umanamente, creativamente attive fra gli uomini.
Volevo assimilare interamente, senza possibilità di equivoci e travisamenti quanto incontravo: sant’Agostino, Simone Weil... Rembrandt, Caravaggio, Freud, Steiner, Evola, Adorno, Bloch, Benjamin, Marx, Mondrian, Duchamp... Canetti..., qualsiasi circostanza, cosa, fenomeno nel quale mi trovavo coinvolto.
Questo lavoro da un certo momento in poi si è sviluppato in condizioni di vita radicalmente fuori dalle convenzioni dell’esistenza alle quali ero abituato.
 
Smisi di praticare la pittura nel ‘59 perché l’esigenza di conoscere la natura di categorie e luoghi mentali dai quali scaturivano teorie artistiche si impose come primaria. Intuii con forza che c’è un modo di pensare le necessità e i problemi che non permette alle facoltà conoscitive di intenderli e risolverli con verità, anzi li complica e li nasconde in uno sconfinato labirinto di pseudoragioni. Era urgente cercare di capire quale fosse il metodo buono per “pensare sul pensiero”, quale la posizione di una mente capace di produrre comprensione e vera intelligenza delle cose che si esperimentano. Mi sono trovato in una condizione esistenziale dove tutta l’economia doveva essere inventata dall’inizio: la produzione, la gestione, le tecniche produttive e il sistema di scambio; tutto era estraneo a quella esistenza saldamente ordinata, tecnicamente stabilita, nella quale comunque ero inserito prima. Vivevo in una condizione di reale confusione economica, con tanti frammenti di intensa e dura vita esteriore e interiore da ricollegare per produrre cose di necessità elementare (denaro, fuoco, acqua... simpatia con l’altro...). Occorreva decidere come organizzare economicamente la vita per soddisfare le più elementari esigenze di sussistenza in un ambiente incolto moralmente, ideologicamente, tecnicamente: una situazione azzerata e gravida di urgenze, dirompenti tensioni, violenti turbamenti.
Soprattutto dal ‘60 fino al ‘64 sono vissuto in uno stato di confusione e di angoscia a fior di pelle perché non sapevo più come organizzare prospetticamente la mia vita.
Ma è stato in questo stato di disorientamento interiore e di disorganizzazione materiale che, impegnato a fare le cose che sono elementarmente necessarie (alzarsi e lavarsi alla sorgente, mangiare, coltivare, leggere, procurarsi da riscaldare ecc.), cominciò ad emergere il senso. In quella condizione realmente povera, in una vecchia casa contadina abbandonata in mezzo ai monti aretini, in una situazione che non sarebbe stato possibile scegliere se fossi stato consapevole di ciò che realmente significava, cominciai confusamente a sentire che la mia esistenza aveva il suo proprio fondamento.
Piano piano mi accorsi che lentamente ma saldamente si esprimeva una volontà complessissima e determinante al di là di ogni giustificazione e sublimazione ideologica.
 
Queste sono riflessioni a posteriori, certo. Si trattava, dicevo, di una condizione limite, non volontariamente voluta.
Non è facile comunicare questa esperienza a chi non l’ha in qualche modo sperimentata, è difficile da comprendere anche per quelle persone che mi sono state quotidianamente vicine, poiché, pur accompagnandoci nelle stesse situazioni esteriori, pur obbligati a compiere i medesimi gesti, si può rimanere sostanzialmente estranei alla vicenda interiore attraverso la quale questi vengono sperimentati e assunti dall’altro.
L’assunzione del significato di certi fatti in termini di esperienza umana dipende da fattori interiori imponderabili e del tutto personali.
Ci sono esperienze che ci scaraventano molto indietro nella nostra esistenza individuale, obbligandoci a prendere coscienza di fatti e fenomeni che nella vita comune rimangono nell’oblio, occultati dal peso delle apparenze, dalle convenzioni, dalla rimozione della paura.
 
Nella seconda metà degli anni cinquanta lavoravo in pubblicità (nella American Advertising Agency, di A. Calabresi). Dipingevo, cominciavo ad esporre qualche lavoro, frequentavo l’Accademia di Francia a Villa Medici, lavoravo con un gruppo di amici.
Ma oppresso dal plumbeo clima culturale e dalla piega che aveva preso la mia esistenza, partii e passai circa un anno a Londra, il ‘59.
Tornai a Roma dall’Inghilterra dopo un soggiorno in Francia e poco dopo l’abbandonai definitivamente, questo significò di fatto lasciare tutto il precedente sistema di vita, quello nel quale ero vissuto fin dalla nascita.
 
Il mio primo quadro (Natura morta,1953) l’ho ripreso in mano dopo gli anni del distacco aretino. Ne sono rimasto colpito perché ho visto che c’era già tutto quello che ero andato cercando. Mi sono accorto che in questo quadro della sensibilità e sensorialità del tipo Scuola Romana non c’era proprio niente, se non una superficialissima somiglianza. Vidi invece che c’era una sensibilità e una sensorialità prossima più a quella dei primi Cézanne.
In quella mia prima natura morta del ‘53 riconobbi espressi in modo immediato i tratti di un carattere pittorico. Non c’è nessuna enfatizzazione lirica, non vi vedo quella dilatazione emotiva caratteristica di tutta la Scuola Romana e dell’espressionismo in generale. Non c’è psicologismo. [...]
Chi in quegli anni, ma anche dopo, s’è posto concretamente il problema di praticare l’esercizio artistico per esorcizzare la rimozione psicologica?
[...] Nel disporsi delle forme avverto uno strano movimento planante dall’alto che ora mi fa piuttosto pensare a certe forme duchampiane. Più osservavo quel quadretto e più mi appariva evidente che esprimeva una presenza arcaica. Adesso so che smisi di dipingere perché avevo intuito che nell’esperienza artistica contemporanea in pittura non c’era nulla che potesse servire positivamente a indicare la strada per un’arte veramente realista. Sì, c’era Cézanne. Ma appunto l’arte di Cézanne è una testimonianza, non un’indicazione di poetica.
Quando ripresi a dipingere con Il ceppo del ‘66, cercavo inavvertitamente di ritrovare quella condizione mentale presente in quella prima natura morta del ‘53, in questa riconoscevo consapevolmente espressa l’unica condizione per poter sensatamente cercare più vaste conoscenze.
Dico “ripresi a dipingere”: in fondo, senza rendermene ben conto, volevo semplicemente ridipingere il mio primo quadro, che non era, malgrado tutto, culturalizzato, non era l’espressione di rappresentazioni poetiche acquisite... Le somiglianze con alcune poetiche erano meramente occasionali. Non c’era una poetica, secondo me, perché i riferimenti sono epidermici, infantili; invece la struttura sensoriale è qui presente in un corpo vivente nelle sue prime relazioni spazio-temporali, direttamente espresse, genetiche.
L’unica persona che d’acchito ha percepito l’autentica qualità di questo quadro è stato Massimo Cacciari; mi ha stupito perché è stata la prima volta che qualcuno non ha detto immediatamente Scuola Romana, ma ha nominato Cézanne.
 
Se si parla di Cézanne in questo caso, non si parla della sua arte intesa appunto come sforzo ostinato, cosciente, complicato, caparbio con il quale lui cerca la visione della realtà, ma di alcune consonanze con i dati fondamentali del carattere della sensorialità, intesa appunto come base di una “materia” da far crescere; si parla di un’esigenza da assumere come pratica della pittura, come conoscenza e non come rappresentazione di pensieri, sentimenti, impulsi presunti già sperimentati. Dunque, quando ripresi a dipingere, mi era chiaro che non avevo né potevo “rompere” niente di niente, ma dovevo trovare i modi per intraprendere una pittura capace di rispecchiare gli oggetti e i fenomeni, silenziosamente, assumerli con intelligenza veritiera, senza identificazioni patetiche e concettualismi. In quegli anni, quando facevo vedere i lavori ai critici, equivocavano inevitabilmente. Anche Arcangeli, quando li vide a Ferrara, per la prima volta nel ‘71.
Anche Ragghianti, che pure intuì con forza, mi appoggiò e presentò la mia prima personale alla Strozzina a Firenze. Ci si immagini poi quel che potevano “pensare” quelli che negli anni sessanta, settanta (e oltre) giocavano a fare la neoavanguardia.
Ma a quel tempo io non riuscivo a rendermi conto chiaramente della natura di questi fraintendimenti e malintesi.
Certo più o meno tutti avvertivano che la mia ricerca era grave, anche se pensavano che ero confuso ed eccessivo, magari poco dotato. Ma credo che provassero anche disagio, irritazione e paura.

[...] Quel che sperimentai alla Valle non è così facilmente rappresentabile. Con il tempo ho scoperto che quel “sentire” era di natura, come dire, ontologica, aveva una qualità permanente, non era un sentire determinato dall’ambivalenza della coscienza naturalistica, era un sentimento evoluto, unificante, conteneva con forza generativa. A ogni modo segnò la mia vita in modo decisivo, facendo emergere dal profondo della mia esistenza dimensioni del sentire, del volere e del pensare che senza quell’esperienza di vita così altra non sarebbero mai potuti emergere. Quelle presenze permangono e, oltre la mia volontà pensante e le determinazioni contingenti, mi orientano tuttora. E orientano il mio lavoro in pittura, ne sono l’oggetto, la cosa da comprendere infinitamente.
 
Ripresi a dipingere a Monteveglio nel ‘65-66.
Nel ‘70 dopo aver fatto un certo numero di quadri volli mostrarli, e cominciai, con le foto fatte da me stesso, ad andare in giro qua e là per critici e gallerie. Allora feci un’altra esperienza estremamente significativa: l’assoluta estraneità del mio lavoro e della mia posizione, l’impossibilità di comunicare e dialogare con gli addetti ai lavori. Compresi che si era prodotta una distanza enorme, forse incolmabile. Gli “addetti ai lavori” lavoravano sicuri di quel che facevano, citavano, distinguevano, combina vano e scombina vano date, luoghi, nomi e, soprattutto, decidevano su come e chi aveva diritto di esistere o meno, su chi era già morto e sul come bisognava nascere, su quel che occorre va o non occorreva fare per esistere.
Non c’era possibilità di contatto. Ero spaventato, perché le reazioni degli altri ai miei lavori erano semplicemente assurde. Non si riferivano mai a fatti reali, alla reale esperienza espressa nelle operazioni artistiche che mostravo loro. Le loro osservazioni, tutte, o quasi, prendevano come punto di riferimento ideologie consolidate, più o meno in voga; insomma, mi trovai ad avere a che fare con le diverse forme di conformismo, con linguaggi omologati non con forme di conoscenza. Erano incontri sbagliati in partenza, assurdi, allucinanti, che mi costavano un grande sforzo e con risultati apparentemente insignificanti. Certo, io mostravo loro cose impacciate, nelle quali si diceva delle difficoltà reali, e mi si rispondeva con storie di dèi, di cicli cosmici, date mitiche, congegni planetari. Eppure mi convinsi sempre più che quella era l’unica via realistica da perseguire, la sola utile anche a darmi più chiara coscienza di quanto percepivo di valido e gravido di futuro nella mia esperienza e nel mio lavoro.
 
Il primo a interessarsi realisticamente al mio lavoro fu Carlo Ludovico Ragghianti; la mostra alla Strozzina nel ‘71 e poi a Ferrara fu la prima concreta conclusione del suo interesse.
Queste mostre decisero comunque l’inizio di un nuovo periodo. Ed è a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti, che portai un giorno Arcangeli; passai con lui un pomeriggio utilissimo.
Già dal suo primo contatto con i miei lavori capii che non aveva afferrato i punti di partenza della ricerca (e non poteva non essere così), né il modo mentale con il quale io affrontavo esigenze forti che erano in parte anche sentite da lui.  [...] il mio reale problema era quello di comprendere la natura delle forze che animano il Super-io, la qualità della volontà. [...] Rimane certo comunque, che faceva un autentico sforzo per cercar di capirmi, questo sì. Ma non credo abbia afferrato cosa andavo cercando.
Ad esempio mi disse di non trovare nei miei lavori “sufficiente pressione”. Capii benissimo cosa intendeva dire con “pressione”. Arcangeli con questa parola esprimeva un contenuto psicologico che riteneva una qualità essenziale, il portato umano di quelle sue teorie estetiche sul naturalismo alle quali faceva sempre riferimento. Ma quelle sue teorie sono molto riduttive dell’esperienza artistica e, a mia convinzione, viziavano la percezione che Arcangeli aveva dell’opera, non gli permettevano di comprenderne alcuni aspetti e, a mio parere, i più complessi e alti. Alcune sue percezioni erano confuse – ma percepiva, sì, con intensità e partecipazione.
Del mio lavoro non intuì la natura dell’esigenza, la qualità della vocazione che lo muoveva. Io stesso in quegli anni non ne avevo compreso con sufficiente chiarezza il carattere, e non riuscivo a esprimermi se non a tentoni. Ma disse:“Mi faccia vedere come Lei guarda questi suoi lavori... ”.
Dopo che io di fronte ai quadri ebbi bene o male mimato, per così dire, quel che vedevo essere i movimenti più significativi, Arcangeli mi disse che gli sembrava di capirli meglio e che aveva bisogno di rifletterci sopra.
Credo però che gli sfuggisse la natura dell’ossessione che mi costringeva a dipingere, cioè la mia vocazione alla pittura come pratica, strumento e mezzo di conoscenza della natura della volontà in quanto fondamento dell’Io vivente.
 
Prima di riconoscere la qualità di base di questa vocazione, ci sono state crisi dure, angosciose. Ma dal momento in cui si comincia a percepire la qualità di una vocazione, tutta l’individualità comincia a respirare, a lievitare e la vitalità elementare si raccoglie intorno a un nucleo magnetico; allora molti fenomeni che prima si vivevano come contraddittori e conflittuali perdono semplicemente il sensodi inimicizia, un sentimento più profondo, ontologicamente fondante, si mostra sempre più forte e chiaro, una forza di crescita, si manifesta ed emerge spontaneamente al di là delle rappresentazioni e delle affezioni della coscienza abituale: lo sdoppiamento o separazione tra concettualità e prassi viene semplicemente superato, non evaso per mezzo di un movimento regressivo provocato da un’artificiosa composizione, autocontemplazione lirica che è mera manipolazione della conflittualità naturale, non il suo reale trascendimento.
La vera natura di questo trascendimento è ciò che qui interessa fare lo sforzo di comprendere: osservare i modi attraverso i quali quest’esigenza del superamento si manifesta, come viene da noi assunta, seguirne i percorsi, le soluzioni reali o artificiose, i raggiungimenti, le evasioni che per mezzo dell’arte sperimentiamo: interessa non per una curiosità culturale, è un’esigenza che s’impone come ossessione.
Ovviamente questo proposito non può essere condotto per mezzo di un progetto definito. Si percepisce un punto, ma non le linee di fuga prospettiche che a questo conducono.
Queste linee bisogna inventarle a colpi di conoscenza, coraggio, dolore, speranza, dedizione. Quando ripresi a dipingere, tutte queste cose erano, ovviamente, congestionate e confuse, con un carattere anche delirante e allucinatorio. Intuii che questa condizione turbolenta aveva origine da avvenimenti che animavano la vita dell’Io, da una tensione della volontà demonica che non poteva essere certo esorcizzata con progetti intellettuali o semplici buoni propositi sentimentali. Volontà soggiogata da un incontenibile impulso di affermazione predatoria che vive spontaneamente all’interno del nostro impulso volitivo e perverte intuizioni, buone intenzioni, desideri di pace e di perdono. È una volontà omicida, prevaricatrice, che degrada conoscenze, intuizioni, che sa gratificarsi con acute e realistiche giustificazioni, che recita il bene e il male, il bello e il brutto.
Questo che sto dicendo, questi fenomeni erano oscuramente presenti e sperimentati in me fin dagli anni cinquanta e credo anche da molto prima, nell’infanzia. Ora ne ho una qualche comprensione attiva. Ora capisco perché percepivo come un non senso, superficiale e macchinoso intellettualismo, quanto sentivo dire intorno all’arte moderna e all’avanguardia nel clima culturale degli anni cinquanta e sessanta, e le cose non sono tuttora cambiate.
Non riuscivo proprio a digerire, per esempio, quei discorsi sull’astrattismo moderno contrapposto a realismo o altro.
Contrapposizioni come quelle tra astratto e figurativo erano e sono pseudoproblemi. Le cerebrali e patetiche espressioni di artisti e critici cosiddetti militanti in questa o quella tendenza: costruzioni di una ragione da ispettori ministeriali, dal punto di vista conoscitivo erano e sono distinzioni assolutamente inesistenti. Kandinsky, Mondrian e altri non hanno mai proposto contrapposizioni di questo tipo.
 
Quando compresi che dovevo dipingere, fu una vera liberazione: è più vero dire che è stata la pittura a scegliermi. Dopo l’intimo riconoscimento della mia vocazione sorse l’esigenza di come assumerla concretamente, di come aderire al “destino” che mi si era imposto. Si è allora assaliti da mille problemi che sembrano irrisolvibili.
Certo, al momento della presa di possesso del mio “destino” di pittore, fu come se mi fosse stato restituito il corpo insieme all’intelligenza per farlo crescere. Non mi è facile rappresentare con compiutezza quest’esperienza, della quale, fra l’altro, ebbi piena consapevolezza solo molti anni dopo. Parlando di esperienze così determinanti si rischia sempre di fare della retorica. Eppure sono le parole apparentemente più banali che corrispondono di più al senso interiore che ci certifica della nostra vocazione e del suo destino. Evidentemente la pittura non è il solo mezzo di ricerca della verità. Quando per diversi anni non ho dipinto, evidentemente cercavo di capire quale fosse la “materia” con la quale dovevo affrontare l’esigenza di questa ricerca. Mi sono voltato da più parti, ho conosciuto diversi ambienti, i più distanti fra loro. Ma a farmi riconoscere il valore di vocazione che aveva per me la pratica della pittura fu quell’esperienza iniziata nel '60 e che per certi suoi caratteri peculiari continua tuttora. [...] Un’esperienza che evocò dal profondo forze ancestrali, dimensioni inimmaginabili dell’animo, della mente, dell’Io.
Ma come assumere questo universo incompreso, come esprimerlo? Ecco che allora la pittura mi si propose come vocazione, come mezzo di osservazione e conoscenza oggettiva per la ricerca della verità e del senso di quanto andavo sperimentando.
 
Con la pittura posso intuire e tentare di dispormi a quell’intelligente comprensione delle intuizioni, dei pensieri, dei sentimenti, impulsi, volizioni, preoccupazioni, ragionamenti, fantasie, di tutta quella vitalità elementare che emerge caoticamente. Si tratta di non dissociarla analiticamente, questa vitalità, di non farla regredire, per mezzo di astratte schematizzazioni. Si deve osservarla in tutta la  sua forza eruttiva, senza dilatarla in una fantastica espansione emotiva, senza opprimere questo caos naturale dentro una qualche ideologia, senza evaderlo con intellettualistiche idealizzazioni.
Questo caos non lo si deve interpretare, ma solo osservare e resistergli, “semplicemente” acquistando così la capacità di vederlo globalmente, di vedere in questo “buco nero”, in questo indefinito brulicare di reazioni fisiche, psichiche, mentali. Vedere resistendo alla paura, all’angoscia. Nella misura in cui vi si riesca, allora si comincia a intravedere il senso; il caos si illumina lentamente dal suo interno. Questa trasmutazione cerco di esprimere nell’esercizio della pittura.
I segni sensibili di questa resistenza, se non sono una risposta coatta data dalla paura, introducono nell’operare un elemento originale che, proprio in quanto tale, è in principio inavvertito, ma che lavora in profondità, scioglie le potenze dell’animo, accresce la sensorialità e, infine, emerge alla percezione cosciente. Tutto ciò avviene molto lentamente e attraverso ripetuti sforzi e continue lotte. Tutto cominciò dal momento in cui percepii irreversibilmente che, riflettendo con la ragione comune, comunque non potevo né afferrare, né animare realisticamente il nucleo di intuizioni anche profonde che provavo. Anzi, compresi che la manipolazione dell’intuizione per mezzo di questa coscienza deformava e mistificava la vera natura delle verità intuite. Cerca vo allora qua e là, sperando di trovare una “materia” lavorando sulla quale le stesse intuizioni, come dire, fossero già potenzialmente presenti, in modo latente, certo, dentro la stessa materia. Presenti subliminalmente, latentemente attive. Infine, dopo vari e duri tentativi, compresi che solo la pittura aveva per me questo valore elementare e fondante.
 
Ecco il perché della pittura. Come dicevo, una vocazione, per me, non una semplice professione per sbizzarrirmi nella costruzione di giochi linguistici più o meno dotti.
Ripresi il lavoro perché avevo percepito che la pittura era l’unico mezzo a mia disposizione per affrontare la complessità dell’esperienza del limite vissuta con la speranza di non esserne travolto, o regredire su piste infantili, ma di assumerla transitivamente.
Senza dipingere non vedevo speranza di crescita"
 
 

Bruno Pinto, Per uscire dalla Valle. Critica di me stesso, a cura di Omar Calabrese, La Casa Usher, Ponte alle Grazie Editori, Firenze, 1992, pp. 11-20
 
Buno Pinto, in Cat.  Di fronte e attraverso, Mazzotta, Milano 2005




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