“ […] Pinto dipinge una terra, una materia redenta, un nuovo inizio.
Dipinge una terra senza più terrore, senza più catastrofe. Non un mondo astrattamente pacificato, perché dalla catastrofe egli passa per giungere a qualcosa da cui possiamo realmente ricominciare. […] Pinto dipinge una terra, una materia redenta, un nuovo inizio pagato da una passione per la finitezza, da una passione che passa dalla finitezza e che è amore per la finitezza. Nella sua pittura vi sono solo le cose fatte nuove e che non riusciamo a vedere in quanto fatte nuove.
E' questo l’infinito che non riusciamo a vedere nel finito per cui non siamo ne mistici ne estetici.[…] La pittura di Pinto ci mete a confronto con questa nostra incapacità,
mentre aggiusta senza fine il tiro con la pretesa di cogliere l’Altro che vale la pena cercare sotto i fantasmi vecchi e nuovi perché salvo. Salvo sotto le nostre macerie, […]. Bisogna però avere coscienza che l’Arte deve essere pronta a riconoscere che porta in sé una colpa rispetto all’Altro, che essa deve assumersi necessariamente una responsabilità sempre maggiore. […]
L’obiettivo della critica, della parola che cerca di dire qualcosa sull’arte deve essere quello di mettere nelle condizioni di guardare a lungo ; e guardare a lungo è partecipazione anche se nella nostra società attivistica e cerebrale nella sua stoltezza ce lo ha fatto dimenticare. Ciò che Pinto ci fa vedere è essenziale per la nostra sopravvivenza."
Jean Soldini, in Cat. Di fronte e attraverso. Antologica di Bruno Pinto, a cura di Pietro Bellasi e Giampiero Giacomini, con contributi di Bruno Corà, Remo Bodei, Claudio Cerritelli, Guido Magnaguagno, Marco Meneguzzo, Norbert Nobis, Dieter Ronte, Mazzotta, Milano 2005, cit., p. 73.
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