«I valori della pittura non sono nelle sue
possibilità espressive, come l’essenza
dell’uomo non la si trova nella sua esistenza
meramente psichica» [2]
"Il cuore del lavoro di Bruno Pinto è il rapporto con l’esistente contro i fantasmi e l’illusionismo di cui siamo prede e protagonisti. La pittura è il mezzo per capirci qualcosa in senso radicalmente antignostico. Si tratta di percorrere la via di un divenire pittura, di un farsi materia, forma, colore dell’esistente nel suo essere materia, forma, colore sui piani più diversi. Divenire pittura come varco nel divenire esistente. La nostra mano sulla pietra ne esplora il volume, tocca quel tavolo, il suo piano d’appoggio, lo spessore di quest’ultimo. Quella pietra, quel tavolo sono tali solo diventando e ridiventando pietra e tavolo con una soglia sempre disfatta e rifatta. Spigolo del tavolo là dove finisce e riprende, aderenza a quest’ultimo cercandolo, strofinandovisi col proprio confine anch’esso sempre disfatto e rifatto. [...] Il limite non è mai una frontiera chiusa, è ciò grazie a cui possiamo sfregare cose contro cose che sono pure pensieri, impulsi, volizioni, fantasie, caotico moto “interiore” da conservare nella sua vitalità fattuale, senza dissociazioni analitiche, senza operazioni dialettiche perché gioisca e soffra nell’urto veritativo tra corpi. Vitalità “interiore” ed “esteriore” di un unico divenire in cui singolarità messe in contatto intensivo possono, al di là della genericità e del romanticismo, portare all’essere-con, all’essere insieme alla resistenza di ciò che è e alla responsabilità non intellettualistica, non idealizzata nei suoi confronti. È nell’insistenza di questo esercizio che i fantasmi, le allucinazioni, gli incantesimi sempre personali e collettivi possono essere ridimensionati.
Bruno Pinto provò le prime potenti e durature suggestioni guardando Giotto, Masaccio, Michelangelo, Rembrandt, Velazquez, Van Gogh, Courbet e Cézanne, «il miracolo moderno» perché, ci dice il pittore, «Cézanne non ha Stile»[3]. Ci fu poi un accostamento, presto agente in profondità e libertà massima, a Guttuso con la tensione perentoria della pelle dei suoi volumi e a Severini con la sua dissociazione delle forme riassociate in trazioni centripete-centrifughe. L’artista ha risentito marginalmente del clima informale diffuso in Italia attorno al 1954-1955, pur apparendo legato a quest’ultimo in virtù delle sue estensioni materiche ruvide e traboccanti di luce, pioggia, polvere. L’Informale è fondato su una liberazione di segno e materia che è attestazione d’esistenza la più pura e diretta possibile; segno e materia senza fine, né per la forma né per la sua negazione. [...] Anche in Lucio Fontana il concetto è gesto. Gesto non solo concettuale, ma esistenza che la tela non può fattivamente-idealmente contenere nel suo fare spazio. Liberazione d’esistenza attraversando l’esistente. Non è questo il problema di Pinto. Lo è il limite-esistenza che è forma-materia, intensità-colore di quella forma-materia da sperimentare in pittura in un divenire limite contro limite. Divenire sfregamento mai stabilizzato, con una continua dislocazione del confine, della linea che è punto di contatto tra un pezzo e l’altro dell’esistente. Punto di sutura, taglio, mai troncamento e in nessun caso saldatura bloccante. Taglio, produzione di distantiae (‘distanze’ e ‘differenze’) nello strofinio, nell’attrito da cui sorgono le superfici con le loro dimensioni, con il loro peso. Lì in mezzo – tra superfici d’intensità diverse, tra spaccature e corrugamenti – c’è pioggia, sole, polvere. Lì sopra c’è pioggia, sole, polvere in una pittura che è territorio del desiderio. [...] Il desiderio, che si esprime in questa moltitudine di dilatazioni, è proliferazione di accarezzamenti come vigile smarrimento nell’ “essere insieme” sempre e troppo rapidamente frenato dall’intimazione nevrotizzante del possesso e della padronanza. Lévinas dice che «ciò che è accarezzato non è, a rigor di termini, toccato. Non è la dolce morbidezza o il calore della mano data nel contatto ciò che cerca la carezza. Questo cercare della carezza costituisce la sua essenza perché la carezza non sa che cosa cerca. Questo “non sapere”, questa confusione fondamentale è il suo carattere essenziale».
La carezza non sa che cosa cerca, va al di là di ogni intenzione di toccare. [...]
Nella pittura di Pinto c’è assunzione dell’inferno che noi stessi creiamo con la nostra volontà di onnipotenza. C’è respiro senza sistema della propria angoscia [7]; c’è altresì la gioia derivante da una libertà conquistata nei vincoli con un esistente che non è fatto per fermarsi ai piedi delle idee. Nel suo divenire pittura esso comporta, usando le parole di Georges Braque, che il quadro sia finito nel momento in cui «ha cancellato l’idea». Su questa rotta è andata profilandosi la peculiarità di Bruno Pinto, indifferente a ogni attualità, incurante di tutte le contemporaneità perseguendo il quadro come idea cancellata più l’angoscia più la gioia nel tentativo d’incarnarsi per non nascondersi dietro lo spirito o dietro il corpo.
[...] Si chiarisce qui pienamente il senso dell’esercizio pintiano. Il desiderio è produzione di accarezzamenti al di là del toccare e possedere come lucida perdita d’orientamento nell’ “essere insieme”. L’ossessione avversa la carezza e la sua prerogativa che è quella d’essere attesa di un «avvenire puro, senza contenuto», sempre altro, «senza progetto né piano». [...] Pittura, esercizi d’incarnazione, lasciarsi cadere che è accarezzare, con maggior pudore quando a fronteggiarci e a offrirsi è il corpo femminile. [...] Carezza, visione dell’attrito e “montaggio” della visione negli intervalli-passaggi tra una zona e l’altra del dipinto, da essi generate. Intervalli-passaggi, faglie che sono contemporaneamente tragitto delle dita, a volte linee raddrizzate dalla distanza; e poi di nuovo visione riprendendo anche negli anni un quadro e modificandolo alcune volte sensibilmente. [...]".
© Jean Soldini, Lugano, giugno 2010.
[2] B. Pinto, Riflessioni, in Cat. Di fronte e attraverso. Antologica di Bruno Pinto, a cura di Pietro Bellasi e Giampiero Giacomini, con contributi di Bruno Corà, Remo Bodei, Claudio Cerritelli, Guido Magnaguagno, Marco Meneguzzo, Norbert Nobis, Dieter Ronte, Mazzotta, Milano 2005, p. 328.
[7] Cfr. B. Pinto, Le due luci. Dialogo tra Bruno Pinto e Piero Coda, in Di fronte e attraverso. Antologica di Bruno Pinto, cit., p. 287.
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