A Monteveglio, mentre i suoi compagni di viaggio si reintegrano in una economia precostituita e garantita, Pinto rimane ai margini del sistema.
Rivede i lavori degli anni '50, che percepisce in modo diverso e acquistano per lui altri e più complessi significati; per divenirne pienamente consapevole e senza alcun progetto estetico, sostenuto da Laura, riprende a dipingere.
Percepisce il senso di una nuova consapevolezza del destino della sua vocazione pittorica.
Nel 1966, criticamente cosciente delle “ragioni” che hanno provocato il fallimento delle sperimentazioni artistiche praticate dalle avanguardie storiche, e del tutto indifferente alle artificiose ideologie del clima artistico di quegli anni, sollecitato da una forte tensione mentale ed emozionale, comincia a lavorare sopraffatto da problemi, stimoli, presentimenti e presagi; esperimenta la violenta ambivalenza tra angoscia e speranza.
Così scrive: “Lavoravo molto e con fatica. Potevo portare a conclusione il lavoro indifferentemente ora in un senso ora in un altro, ma percepivo che lo sforzo reale consisteva nel cercare di evitare di concluderlo in immagini che non sentivo corrispondenti alle più vere, seppure oscure, necessità di autentico ‘trascendimento’ del caos esistenziale che quotidianamente sperimentavo nella vita pubblica e privata.
Quando ebbi un certo numero di lavori, sentii la necessità di mostrarli, la domenica cominciammo con l’aprire la porta di casa a chiunque volesse entrare. Questo fu anche il modo per iniziare a venderli”.
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